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“Estrarre la bellezza dal male”: Baudelaire e i suoi Fleurs du Mal

Inizio la mia umile recensione della raccolta più celebre del “padre della poesia moderna” scusandomi pubblicamente con il mio professore di francese del liceo: professor Di Giuseppe, ha sempre avuto ragione Lei, I Fiori del Male è effettivamente abbastanza piacevole e non un grumo di noia appallante e deprimente come pensavamo noi studentelli scemi (ma d’altronde è assodato, ormai, che obbligare gli studenti a leggere un certo autore “perché si deve conoscerlo” sia perfettamente inutile, no…?).

Con la coscienza (relativamente) apposto, posso iniziare a parlarvi delle sfortunate, maledette, scabrose, dannate, bellissime liriche del (da me) lungamente incompreso Charles Baudelaire.


I Fiori del Male (come aveva inutilmente cercato di farci comprendere il prof di francese nella sua eterna lotta contro i mulini a vento che popolavano la nostra altrimenti vuota scatola cranica) è una raccolta di 126 componimenti che, ben lontani dal romanticismo fiabesco che si associa comunemente al termine ‘poesia’, raccontano di un intenso e brutale dolore esistenziale, costantemente (e inutilmente) rifuggito —annegato nel vino, bruciato con l’oppio o sfogato col sesso.

Baudelaire è ossessionato da una malinconia angosciante e disperata, perversa e insostenibile, nata dalla solitudine: in quanto poeta, egli è depositario di una sensibilità quasi sovrumana, che lo eleva al di sopra degli uomini rendendolo, tuttavia, inviso alla gente comune che, troppo cieca e ignorante per comprenderne le virtù, lo deride, lo umilia, lo scaccia come fosse un essere ripugnante e inaffidabile. Così, il caro triste Charles, nel tentativo di trovare qualcosa che distrugga o che renda tollerabile quest’angoscia insopportabile, intraprende un viaggio (immaginario e non), un percorso simile a quello dell’eroe, alla ricerca di qualcosa di salvifico e potente:

[…]

Ho chiesto alla fulminea spada, allora,
Di conquistare la mia libertà;
Ed il veleno perfido ho pregato
Di soccorrer me vile. Ahimè, la spada
Ed il veleno, pieni di disprezzo,
M’han detto: “Non sei degno che alla tua
Schiavitù maledetta ti si tolga,
Imbecille! – una volta liberato
Dal suo dominio, per i nostri sforzi,
Tu faresti rivivere il cadavere
Del tuo vampiro, con i baci tuoi!”

Il Vampiro, “Spleen et Idéal” Qui la poesia completa.

Le poesie sono divise in sei sezioni (Spleen et ideal, Tableaux Parisiens, Le vin, Les Fleurs du mal, Révolte, e La mort), che formano le “tappe” di questo viaggio. Nella prima il poeta si mostra nel suo malessere, spiega come l’Ideale al quale aspira lo renda diverso ed odiato dagli uomini, ed è da quest’opprimente presa di coscienza che tenta poi di fuggire: prima si rifugia nella città (“Tableaux Parisiens”, Quadri Parigini), ma il contatto con l’Altro, con le persone e il movimento cittadino che sperava spegnesse il suo dolore in realtà lo alimenta, perché il poeta non vede, per le strade dell’ipocrita e contraddittoria Parigi industriale, altro che miseria, tribolazioni e sofferenza: la giovane mendicante vestita di stracci, la donna in preda allo straziante dolore del lutto, gli interminabili vecchi barboni – tutto sembra ricondurlo a sé stesso, ricordagli che il male è ovunque, che Parigi brulica di gente infelice quanto lui.

Fallito questo tentativo, egli cerca rifugio dal dolore nei “paradisi artificiali” (“Les Fleurs du Mal” e “Le Vin”), l’oppio, il vino, gli amori carnali e tutto ciò che è talmente peccaminoso da dare l’illusione di uno sfiorato benessere: ma anche questa volta gli va male, e dopo l’ennesima disillusione, al poeta resta un appello vano ad un Dio che non risponde e al quale presto si ribella (“Révolte”, Rivolta), invocando invece l’aiuto e la pietà di Satana, tanto simile, lui, al poeta (anche Lucifero era “portatore di luce”, ed anche lui fu punito e relegato ai margini del mondo per questo). Infine, l’ultima spiaggia: “La mort”, La morte, che però non è intesa ottimisticamente come un avventuroso viaggio né, con pietosa rassegnazione, come la soluzione certa e unica alla fine dei tormenti, ma come un grosso punto interrogativo. Cosa ci sarà nell’ignoto non è dato sapere, ma non importa: nel “nuovo”, nello sconosciuto c’è almeno la speranza di trovare qualcosa di diverso da quest’onnipresente angoscia esistenziale. La mort è una nuova tappa, non la meta finale.

Le voyage” (Il Viaggio) è la poesia che chiude la raccolta:

“O Morte, vecchio capitano, è tempo! Sù l’ancora! Ci tedia questa terra, o Morte! Verso l’alto, a piene vele! Se nero come inchiostro è il mare e il cielo sono colmi di raggi i nostri cuori, e tu lo sai! Su, versaci il veleno perché ci riconforti! E tanto brucia nel cervello il suo fuoco, che vogliamo tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, cosa importa? discendere l’Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo.

da Il Viaggio (VIII), “La Mort”. Trad. Luigi de Nardi

Baudelaire non voleva limitarsi a celebrare la trasgressività né pubblicare centinaia di poesie in cui si lamentava del proprio dolore e inneggiava ai vizi più deprecabili. Les fleurs du mal ha un ambiguo significato, traducibile sia come “fiori del male”, cioè il distillato migliore dell’immoralità e della volgarità umana, sia come “fiori dal male”, cioè “cose belle tratte dal male”: il suo rendere poetici argomenti cupi, tetri, dal retrogusto cimiteriale e blasfemo non era un mero provocare, quanto più un tentare di tirar fuori qualcosa di bello dal dolore e dalle perversioni in cui si rifugia, trasformando tutto quel putridume, quel disperato patire in (splendide) poesie.

Le immense liriche di Baudelaire non sono da leggere una tantum, centellinate per essere meglio assaporate — sono da leggere come un romanzo, una di seguito all’altra secondo l’ordine scelto dall’autore, perché in fondo quella di Baudelaire è una storia, un viaggio, una ricerca epica che indaga negli anfratti più malconci e disastrati dall’animo umano, affermando però, in ultima analisi, la qualità migliore dell’essere umano: il saper estrarre anche dalla sofferenza più cupa e insostenibile qualcosa di bello, o di utile.

[…]
Per chi soffre
e seppure abbattuto ancora sogna

da L’alba Spirituale, “Spleen et Idéal”. Trad. Luigi de Nardi

Edizione di riferimento: Feltrinelli, 1975 (l’altro ieri insomma). Trad. Luigi de Nardis.

sabrina

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2 risposte a ““Estrarre la bellezza dal male”: Baudelaire e i suoi Fleurs du Mal”

  1. Complimenti: non è facile confrontarsi con simili capolavori e, soprattutto, riuscire a raccontarli così bene!

    Piace a 1 persona

    1. Grazie!
      Hai ragione, non è stata una lettura semplice e confesso che finora è stata la recensione che mi ha intimorito maggiormente (scrivere e pubblicare): felicissima, quindi, che tu abbia apprezzato!

      Piace a 1 persona

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